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Fan(dan)go!

Quando anni fa vidi l’episodio pilota di Treme (serie HBO sulla New Orleans post Katrina), guardai con un certo distacco alle storie dei protagonisti. Ricordo in particolare lo sguardo di un uomo che ritornava nella sua casa distrutta dal fango. Una tristezza infinita. Che non sentii.

Ad un paio di settimane dall’incidente nel messinese, la mia complessiva esperienza è stata, mio malgrado, minima. Più che visto ho sentito di gente che ha visto.
La mia andatura a rallenty e il patrimonio genetico che condivido con un bradipo non mi hanno fatto certo reagire con la velocità che più si addice a questo tipo di situazioni e che per fortuna hanno invece avuto tantissimi miei coetanei, da subito organizzatisi in squadre d’azione.

Veni, Vidi…Vidi….Vidi…. Spalai

Al mio arrivo in città la situazione, pur drammatica, vedeva già in azione macchine, scavatrici e tutti quegli altri mezzi di cui sconosco il nome, militari compresi. Paesaggio post bellico. “Alla Beirut per chi lo ricorda”. Ma già gran parte dei tronchi erano stati rimossi dalla strada principale (“U ponti” che poi è per l’appunto un ponte), e le macchine erano state riposizionate nel più classico assetto orizzontale.
La prima tappa meramente “turistica” è stato il ponte di Calderà. Il ponte crollato. Quello che si è visto nella prima pagina di Repubblica. No, non quello del video dove la gente urla disperatamente; quello è un altro ponte e non è caduto. Il ponte di Calderà è quello che attraversi mentre decidi se prendere la granita alla Luna Rossa o al Tramonto; è quello su cui cammini la notte del 17 agosto al ritorno dalla festa di Santo Rocco; è quello all’ombra del quale c’è la fiera degli animali (stile Babe maialino coraggioso). Adesso è caduto. Gli unici animali in zona, se c’erano, se li è portati via il fiume. Adesso dal ponte si scorge una bella penisola di fango e detriti con tanto di conifere coricate sul mare. Un mare che al contatto diventa argilla; niente a che vedere col “mare sporco”. E’ creta liquida. Una lingua di terra perigliosa (metti il piede nel punto sbagliato e flop te ne vieni giù). Eppure sul tronco più lontano, sulla punta di questa penisola, ci ho trovato una bella cagata. Un cane con manie di grandezza.

Le mie smanie di essere utile avevano già spinto i parenti a dotarmi del costume da power-ranger del fango. Stivali nuovi nuovi, tuta veeecchia vecchia, pala vecchissima con tanto di cicatrice. La mia principale attività del giorno successivo è stata far passeggiare la pala e vedere tutti i concittadini darsi da fare nei modi più svariati.
Le strade del centro coperte di fango, con ai bordi montagne di detriti miste a mobilio di tutti i generi.
Ma ancora nulla. Non mi si smuoveva nulla. Probabilmente sarò dotato di una cuticola all’Asperger che mi isola dallo stupore.
A beffa e contrappasso della mia disorganizzazione vengo intercettato con gli amici dalla troupe del tg regionale, che ci usa come allegra scenografia dell’operosità cittadina.

Foto “rubacchiate” da FB

Un’amica in stato di bisogno sazia la mia sete di utilità. La pala stanca di passeggiare si mette all’opera in compagnia di amici, per liberare una stanza usata come magazzino. Faccio il primo incontro diretto col Fango Alluvionale. Io e Fango ci conoscevamo da anni. In tenera età Fango era l’ingrediente principale della pasticceria delle mie cugine. In campagna Fango era il segnale che mi ero distratto e che i pomodori stavano annegando. Ebbi ai tempi anche la fortuna di incontrare il Fango termale dell’isola di Vulcano (roba che oggi la gente paga per incontrarlo). Fango Alluvionale è diverso. Sta dentro le case.
Ovviamente il vecchio magazzino pieno di fango non mi ha fatto alcun effetto. Pala sbeccata in mano, si lavora, si comincia a liberare la porta, si intravede il pavimento. Poi inciampiamo in un disegno, un cartellone. Non capiamo. La mia amica torna portando dell’acqua, la stanchezza in viso per aver passato due giorni nei suoi scantinati insozzati. Si ferma è riconosce il cartellone. Il segna posti del suo matrimonio. Poi fissa i mobili di quel magazzino. La sua vecchia camera da letto. La sua espressione resta sospesa, giusto il tempo per attaccare a tutti quegli oggetti i relativi ricordi per poi ricoprirli di acqua torbida. Riconosco lo sguardo di quell’uomo anziano nel primo episodio di Treme.
Al ritorno a casa, ci rifletto. La mia amica –fra le altre cose- ha perso un pezzo del suo passato. Dalle voci che mi sono arrivate, in molti hanno perso un pezzo di presente e di futuro. Uno sfortunato gioco di pendenze ha portato l’acqua verso il centro città invadendo oltre alle case, i negozi e relativi scantinati. Piscine coperte in cui galleggiano vestiti, scarpe, cellulari, argenteria, documenti privati, probabilmente bare. Intere attività messe in ginocchio. Persino il negozio di animali; non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per vedere i cuccioli posizionati più in basso dimenarsi terrorizzati finché l’acqua non ha coperto le loro gabbie; “Prima vendevano animali, ora vendono statue di creta”, ha commentato un amico con un humor troppo nero pure per me.

Ritardo la mia partenza di un giorno. La mia pala ormai biforcuta, mi guidava come un rabdomante verso zone disastrate. Leggi anche: volevo concludere qualcosa e mi sono informato sulle zone ancora incasinate. Tutte le mie fonti indicavano Pozzo Perla come drammaticamente in difficoltà.
Ovviamente fino a quel momento non avevo idea di dove si trovasse la frazione pozzoperlese. In missione con due amici –nel senso che mi sono infiltrato nella loro missione- raggiungo il luogo del misfatto. Credo che se fossi stato un consueto frequentatore di Pozzo Perla, la prima esclamazione sarebbe stata: ma dove minchia è finito Pozzo Perla??

Sulla destra della via, villette e case macchiate da un’ampia scia marrone, inquietante indizio dell’altezza a cui era arrivata l’acqua. Sulla sinistra invece, c’era una pianura di fango. Niente segnali, niente indizi sottili. Tutte le campagne e le case erano coperte da un alto strato di fango. Distesa umida interrotta qui e li da ruspe. Un po’ come nel tetris quando con un fortunato incastro riesci a neutralizzare le file più basse di quadratini. Gli alberi partivano dalle fronde e le case dal primo piano.
Mentre esploriamo alla ricerca di bisognosi ci fermano dei signori in macchina: “Sapete dov’è il maneggio di Pozzo Perla?”.
Ovviamente non lo sapevamo, ma a quest’ora, ho pensato, ci troveranno gli ippocampi.
Il nostro timido vagare viene interrotto da un provvidenziale guidatore di scavatrice che ci indirizza verso una famiglia in difficoltà. Scendiamo le scale per raggiungere l’ex piano terra abitato. In un flash vedo immersi nel fango un paio di peluches, un coniglietto forse, regurgito fangoso della casa.
All’interno i membri della famiglia sono al lavoro. Entriamo sorridendo e salutiamo; che cazzo ci ridiamo? Beh stiamo sempre entrando in casa di sconosciuti. E’ buona educazione.
In poco tempo nuove reclute volontarie si uniscono all’opera. Col proprietario cominciamo a liberare la cucina…per poi buttarla fuori dalla casa. Smembrare un forno, trascinarlo fuori da un appartamento, prendere sotto braccio un lavandino, tutte cose che non credevo avrei mai fatto. Non tutte insieme. E pian piano che le altre stanze venivano liberate, nuove ondate di acqua melmosa venivano giù. Via il computer, via l’armadio, via anche il letto ovviamente, via il termosifone (ecco portare in giro un termosifone questo non lo immaginavo proprio) ma questo non si butta, “ha a che fare con l’acqua”, dice il proprietario con un sorriso amaro.
Arrivati al bagno e scostata la lavatrice ecco che una nuova ondata ci viene incontro, ma i nostri sviluppati sensi di ragno ci dicono che questa volta siamo letteralmente nella merda.
Sorprendente il modo in cui il fango democraticamente annulla il valore –oltre che la consistenza fisica- di qualsiasi cosa; tanto facilmente lo sportello di metallo del forno si è spezzato, tanto rapidamente tutti quegli oggetti si sono trasformati in spazzatura inutile e indistinta.
Questo sì, alla fine, è riuscito a svegliarmi un po’ dal mio torpore.

La crisi ha unito (molti) nella necessità e nel bisogno. Il tamtam facebookiano è stato incontrollato anche e soprattutto da chi, lontano, ha cercato di colmare così l’assenza fisica. Foto, video, gruppi di coordinazione. Persino una mappa di Google con continui aggiornamenti sulle richieste di aiuto. Addirittura un eccezionale sabato sera barcellonese nella piazza cittadina (che in quanto misantropo io ho poco digerito ma tant’è).
Il punto ora è un altro. A distanza di tempo, col calare della pressione, con il lento ricostituirsi del normale ordine sociale (o meglio dell’ordine sociale barcellonese), cosa resterà dello spirito di quella comunione eccezionale? Perché se da un lato c’è chi ha scavato giornate intere, chi ha organizzato raccolta di beni alimentari, chi ha coordinato i soccorsi, dall’altro lato c’è chi ha alzato vertiginosamente i prezzi degli stivali di gomma, chi ha rubato quei pochi I-phone superstiti dal negozio distrutto, chi è andato a fare la spesa gratis prendendo il cibo per gli sfollati.
La deriva litigiosa che stanno prendendo molti dei suddetti gruppi di facebook è un sintomo non particolarmente incoraggiante. Come un “banale” social network è stato mezzo indispensabile per coordinare gli aiuti, è anche il primo specchio che certi equilibri squilibrati di Barcellona si stanno ristabilendo.
Mi chiedo dunque se ci sia un margine di evoluzione che queste disgrazie innescano in una comunità come quella barcellonese. Il necessario per far si che certe responsabilità siano messe in luce e soprattutto che certi provvedimenti – tecnici, in special modo- vengano avviati.
Perché a ulteriore sberleffo della nostra pigrizia, persino il fango che tanti danni ha causato si è ora trasformato ed evoluto in una altrettanto dannosa coltre di polvere che avvolge la città,che compare a sorpresa nei flash delle macchine fotografiche,che brucia le narici satura i nostri polmoni. Un memento da non ignorare.

Intervista di una concittadina!

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