Intrattenimento, nuovi mondi, videogiochi

Il mio 2023 in videogiochi – Parte 1/2

Inspiegabilmente quest’anno ho dedicato più tempo ai videogiochi come non facevo da anni, un po’ perché sto iniziando a vederli con gli occhi di “chi li fa”, un po’ perché il sovrastante dominio di Guerra e Pace sulle mie letture ha impedito digressioni più brevi. E dunque ecco una carrellata dei mondi visitati nel 2023

A Short Hike (2019)

In realtà l’ho giocato in uno degli ultimi giorni del 2022. Si può completare in una manciata di ore e ho deciso di dedicargli una giornata come si farebbe appunto con un libro molto corto o un film molto lungo.

“La breve escursione”, creato da Adam Robinson-Yu, è un pocket open world in cui impersoniamo Claire nel suo tentativo di raggiungere la cima di Hawk Peak per poter avere finalmente campo e ricevere una telefonata importante. Ma per ottenere l’energia necessaria per completare la scalata volando in cima (la protagonista è infatti un uccellino antropomorfo, così come animali sono tutti gli abitanti dell’isola) Claire dovrà interagire con i vari personaggi che popolano queto piccolo cosmo, ognuno con i propri problemi, da quelli pratici a quelli più intimi: c’è chi cerca la sua paletta per costruire castelli di sabbia e chi deve imparare a credere in sé stesso; chi cerca un avversario per una versione innovativa del beach volley e chi cerca il vero significato della propria arte. Il gioco permette tutta la liberta di gestire le quest in modo personale, tipico degli open world ma il tutto condensato nelle dimensioni di una sfera di vetro con la neve dentro. L’estrema stilizzazione crea un contrasto efficace con lo spirito impertinente della scrittura, mescolando note comiche a momenti più “introversi”, in un’avventura agrodolce fatta di passeggiate nei boschi, piccoli segreti e planate in cieli dorati.

Call of the Sea (Out of the Blue, 2020)

Norah Everhart si imbarca in un viaggio in solitaria verso una sperduta isola del Pacifico per seguire le tracce del marito Harry, scomparso nel tentativo di trovare una cura per la misteriosa malattia che affligge la protagonista e che, se lasciata progredire, porterà inevitabilmente alla sua morte, come già accaduto a sua madre e a suo nonno prima di lei. Grazie al suo diario di viaggio sul quale annota ogni dettaglio della sua avventura, Norah dal momento dell’approdo seguirà le tracce della spedizione guidata dal marito, cercando di dedurre cosa sia accaduto a lui e ai suoi compagni, quale antico segreto è sepolto nel cuore dell’isola e come tutto questo sia legato alla sua malattia. Pur non avendo mai letto Lovecraft utilizzerò sulla fiducia l’aggettivo più utilizzato in relazione a questo gioco… E’ Lovecraftiano! Ed è sufficiente addentrarsi di poco nella storia per capire il perché. Tra foreste lussureggianti, inquietanti relitti, spiagge di nero basalto che sembrano animarsi al servizio di forze ancestrali e inspiegabili, Call of the Sea cattura per la sua eleganza, la varietà dei puzzle (che almeno in un caso hanno richiesto che prendessi appunti con carta e penna, come “ai vecchi tempi”) e un’atmosfera inquietante ma non opprimente, piena si suspense e infusa di un senso di scoperta che per certi versi mi ha dato l’impressione di un Indiana Jones intimista e riflessivo. Norah sarà all’altezza di convivere con le verità che tanto sta cercando?

Tell me why (Don’t Nod Entertainment, 2020)

Allison e Tyler sono due gemelli, che si ritrovano dopo essere rimasti separati per dieci anni a seguito della morte della madre Mary-Ann avvenuta in circostanze traumatiche. Nate come sorelle ora si rincontrano come sorella e fratello, quando Tyler, dopo aver adempiuto ai propri obblighi con la giustizia, fa ritorno nella cittadina d’origine, Delos Crossing, Alaska e nella casa d’infanzia che oltre a custodire i ricordi del loro passato cela anche i segreti di ciò che è accaduto davvero alla loro famiglia. Il gioco non solo affronta in modo molto attento il tema della transessualità, specie se rapportata ad una comunità piccola e bigotta, ma sfruttando l’elemento sovrannaturale della telepatia fra i due gemelli, rende le loro interazioni con gli altri personaggi, un delicato esercizio di equilibrismo alla ricerca degli approcci migliori al dialogo per ottenere le risposte più dettagliate e svelare elementi della loro infanzia di cui erano all’oscuro. I ricordi infine giocano un ruolo chiave in questa storia, specialmente per la loro ambiguità, assoggettabili come sono alla interpretazione viziata che chi ricorda vuole imporgli: non sempre infatti Tyler ed Allison ricorderanno gli stessi eventi in modo esattamente sovrapponibile, condizionati come sono dai loro bias, e quando si chiederà al giocatore di scegliere una delle due versioni come quella “reale” consolidandola come ricordo condiviso fra i due, ciò influenzerà le future relazioni fra i personaggi e il senso stesso dei loro rapporti. Lateralmente agli introspettivi paesaggi innevati in cui il gioco si svolge, il giocatore verrà trasportato anche nel mondo fantastico e un po’ inquietante delle storie d’infanzia che Mary-Ann scriveva per i due figli, una raccolta di racconti, “il libro dei goblin”, illustrato in modo incantevole da Florence Guittard, che aggiunge un ulteriore tocco di magia e stravaganza a questo dramma famigliare.

The Secret of Monkey Island (Lucasarts, 1990)

Un ritorno alle basi o per meglio dire “compiti per casa”, visto che la saga è incredibilmente iconica ma io fin qui non avevo mai affrontato alcun capitolo seriamente. Costretto ad un periodo di riposo forzato ho deciso si sfruttarlo mettendomi alla prova con questo titolo che porta dietro tutte le difficoltà di un game design non eccessivamente prono ad aiutare il giocatore (anche se il tasto H con i suggerimenti è gradualmente diventato un mio carissimo amico). E così eccomi al fianco del pirata wannabe Guybrush Treepwood nella sua surreale avventura per diventare un professionista dei sette mari e svelare il segreto del tesoro di Monkey Island. Tutti i cliché delle storie di pirati (i villaggi di bucanieri, le tribù di cannibali, i galeoni fantasma) vengono rivoltati in chiave comica e goliardica tanto che è impossibile arrivare a fine gioco senza sorridere più di una volta (i duelli all’arma bianca basati su insulti coordinati è stato forse il momento più alto per me). Per pigrizia ho giocato la versione più moderna, con il voice acting e rinunciando alla pixel art, anche se a volte è stato difficile comprendere quali oggetti degli scenari fossero davvero “interattivi”. Ho provato una forte nostalgia perché il titolo ha il sapore di quel tempo in cui avevo più sogni che programmi anche se, il prezzo che paga per il tono scanzonato è una certa superficialità nella caratterizzazione dei personaggi.

Hollow Knight (Team Cherry, 2017)

Dopo un primo tentativo fallito, finalmente ho trovato il coraggio di tornare nelle lande tenebrose e decadenti del regno di Nidosacro per riprendere i panni del Cavaliere Vuoto e portare a termine la sua missione. Parlo di “coraggio” innanzitutto perché la mia relazione con i così detti metroidvania è di infastidita tossicodipendenza: detesto il fatto che i giochi di questo genere abbiano mappe cosi enormi che vanno memorizzate alla perfezione e i cui cunicoli vanno ripercorsi una infinità di volte perché ad ogni nuovo potere acquisito, nuove aree in zone già battute diventano finalmente accessibili. Lo detesto… e lo amo! La curiosità de esplorare i meandri di questi mondi articolati vince ogni volta sul mio autocontrollo e come non poteva risvegliarsi qui dove letteralmente la mappa rappresenta l’intricata rete di gallerie che formano un gargantuesco nido popolato da insetti e artropodi senzienti. Si inizia fra le polverose strade vuote di un villaggio abbandonato per poi avventurarsi in foreste rigogliose e acide, lande dominate da funghi sotterranei, canyon pervasi da nebbie elettriche, miniere di cristalli laser, tenebrosi tunnel avvolti in trame di seta, città svettanti sotto una scrosciante pioggia eterna, e così via. Il tutto illustrato con una direzione artistica che mescola una stilizzazione dei personaggi tenera e “pucciosa” dal gusto nipponico ad un’atmosfera di generale malinconia quando non direttamente funerea. Ma di “coraggio” (per i miei gusti) c’è assolutamente bisogno per il secondo aspetto di questo gioco: ha delle note soulslike. E’ cioè un gioco dai toni e dalla lore lugubre e misteriosa, dove ogni frammento di trama va catturato e interpretato tramite mezzi dialoghi e descrizioni degli oggetti disseminati nel mondo, con pochissime certezze sulla cornice generale; è fastidiosamente punitivo visto che ogni morte richiede un certo backtracking con annesso rischio di perdere i punti accumulati con tanta fatica, e con aree di salvataggio molto distanti e scomode da raggiungere; è un gioco che ha fra i punti chiave delle boss-fight molto complesse in cui il giocatore dimostra le proprie abilità apprendendo i pattern del nemico e migliorando, morte dopo morte dopo morte. Insomma è un vortice nero dove il proprio tempo viene assorbito facendo leva su uno spirito competitivo che -ragionandoci a mente fredda- non ho alcuna voglia di stimolare e che invece viene inevitabilmente sollecitato. Non mi pento di averci messo tante ore, sono fiero di conoscere questo mondo curioso e tragico e probabilmente comprerò il sequel ma quello che mi ha lasciato in termini di story-telling è abbastanza vuoto come le vestigia dei personaggi e dei regni in rovina che ho conosciuto (i dlc infatti li ho semplicemente ignorati, senza alcun senso di colpa).

The Mageseeker (Digital Sun, 2023)

Terzo spinoff di League of Legends pubblicato con l’etichetta Riot Forge, parte di una operazione di Riot finalizzata ad acchiappare nuove fette di pubblico con serie animate (Arcane su Netflix) ed appunto singoli titoli sviluppati da studi indipendenti per esplorare la lore del mondo di Runeterra in un modo altrimenti impossibile in un Multiplayer Online Battle Arena, come League. The mageseeker è ambientato nella regione di Demacia, dove la magia è temuta e perseguita. I palazzi sono costruiti con candida petricite, un minerale in grado di assorbire i poteri magici e neutralizzarli; le strade sono battute da squadre di Cercatori che pattugliano il regno per individuare e imprigionare chiunque manifesti capacità soprannaturali. In questo contesto si snodano le vicende di Sylas, un ex Cercatore finito anche lui in catene dopo aver mostrato in modo “esplosivo” di cosa è capace: possiede infatti l’abilità di “rubare e specchiare” i poteri magici altrui. Dopo anni di segregazione riesce finalmente ad evadere imbarcandosi in una personale ricerca di vendetta che potrebbe però, se ben orientata, trasformarsi in qualcosa di più ampio respiro: una rivolta in grado di scardinare il corrente regime di “apartheid” portando a nuovi equilibri nel regno. Il modo in cui la storia è raccontata è quello di un action RPG in pixel art, in cui i vari capitoli della vicenda e le missioni secondarie si alternano a momenti di raccoglimento nel covo dei rivoltosi, dove il giocatore avrà tempo di potenziare abilità, fare il punto della situazione ed approfondire la relazione con il vasto cast di comprimari. Ho trovato la meccanica di gioco divertentissima, dal più basico picchiare i cattivi a colpi di catene giganti, al più tattico rubare incantesimi agli altri e usarli contro i nemici più sensibili a quel dato elemento (c’è tutto un intreccio di poteri complementari che può essere usato a proprio vantaggio). Sebbene la scrittura in sé sia priva di un qualsiasi guizzo o nuance, mantenendosi sempre molto letterale, viene comunque facile prendere le parti della minoranza vessata, complice la realistica ipocrisia dei regnanti (bravi tutti ad essere contrari alla magia, con i poteri degli altri) e ho inoltre apprezzato come un secondo livello di narrazione sia stato affidato fondali del gioco, dove -seppur a livello “cosmetico”- succede sempre qualcosa (combattimenti, fughe, scene di vita di tutti i giorni) che rafforza e completa l’azione principale.

Convergence (Double Stallion, 2023)

E si continua con il filone degli spinoff di LoL ma anche dei metroidvania, perché per quanto possa dire di odiare questo genere a causa del malato potere seduttivo che esercita sulla mia mente debole, beh nel 2023 ne ho giocati ben 4. In questo caso però, grazie al cielo, si tratta di un pocket metroidvania (formato simile a tutti questi spinoff di LoL) se segue le gesta di Ekko, un giovane inventore in grado di “giocare” con il tempo impegnato nel tentativo di evitare una catastrofe che minaccia di distruggere le due città gemelle Zaun e Piltover. Per gli appassionati della serie Netflix Arcane, molti dei personaggi e dei luoghi menzionati nel gioco risulteranno familiari, anche se qui i luccicanti tetti della privilegiata Piltover sono solo un miraggio visto che il gioco è ambientato nella inquinata, corrotta ma vivace Zaun, la città “di sotto”. Tutte la abilità di cui Ekko è in possesso girano intorno alla manipolazione del tempo e sostanzialmente permettono al giocatore di tornare letteralmente sui propri passi ogni volta che qualcosa è andato storto o di congelare gli eventi quando la situazione si fa complicata: un vantaggio non da poco per chi come me affronta le battaglie, lanciandosi a tutto spiano senza alcuna tattica. Il tutto con uno stile da fumetto, con neri molto forti, colori molto saturi e texture a retini che rafforzano i toni steampunk del titolo. La più grande pecca del gioco è però il comparto narrativo, non solo perché alcuni personaggi molto noti in LoL vengono forzatamente inseriti nella storia, a mo’ di cammeo senza davvero apportare molto agli eventi, a volte addirittura in contrasto con le caratterizzazioni canoniche, conosciute dai fan; ma anche perché – e questa non è certo una responsabilità degli sviluppatori- visto il successo della serie Netflix, Riot ha deciso di riformulare l’intero lore dell’universo di Runeterra sulla base degli eventi dello show, che però sono incompatibili con la lore ufficiale di LoL sulla quale Convergence è basato. Di conseguenza, avendo avuto la sfortuna di essere ambientato nella stessa regione in cui è ambientata la serie streaming, l’intera trama del gioco è stata travolta dal reboot, riducendosi – probabilmente- ad un divertente “what if scenario”. Forse proprio per questo motivo (spoiler in vista) verso la fine del gioco si accenna all’esistenza di un multiverso, non perché in concreto gli scrittori di LoL vogliano sfruttare questa abusatissima carta, ma più che altro per autogiustificare, sommessamente, la propria esistenza nel catalogo di Riot Forge.

Pyre (Supergiant Games, 2017)

Sfortunatamente ho un problema con i giochi degli sviluppatori di Supergiant: adoro il comparto artistico ma non riesco mai ad essere coinvolto dai mondi che presentano al giocatore. Il loro storytelling si bassa il principalmente su delle suggestioni, eventi e posti il più delle volte solo evocati, mostrati in controluce e poi lasciati fumosamente sospesi perché il giocatore possa unire i puntini, ammesso che ci siano davvero tutti, i puntini. Mi è successo di avere questa sensazione giocando a Transistor e mi è capitato di nuovo in Pyre, dove interpretiamo un reietto, cacciato dall’elitario regno del Commonwealth per finire nelle desolate lande del Downside; qui assumiamo il ruolo del  “Lettore” del Libro dei Riti, unico dotato del potere di guidare una banda di altri esuli, chiamati Nightwings, nei rituali di purificazione che possono garantirci di ristabilire il nostro status ufficiale, ascendendo nuovamente fra gli eletti del Commonwealth. Dove per rituali si intendono delle partite di “pallacanestro” magico, in cui ogni personaggio forte delle proprie caratteristiche uniche, diventa asset essenziale per sconfiggere la squadra avversaria, in movimentate partite 3 contro 3. La componente di gioco sportivo sotto mentite spoglie è stato per me un ulteriore freno, vista la mia naturale inettitudine nel genere e se a questo si somma la difficoltà a sentirmi coinvolto dalla lore e dai suoi dettagli, si capisce perché abbia iniziato e mollato il gioco due volte prima di decidermi a finirlo.

Eppure…

Eppure pian piano che la storia procedeva e le partite si susseguivano, pur disinteressandomi alla cornice  più ampia del racconto, non ho potuto fare a meno di affezionarmi alla maggior parte dei personaggi, sviluppando anche preferenze nelle formazioni e tecniche di gioco che hanno finalmente reso le partite spassose, purtroppo proprio quando il gioco entrava nelle sue battute finali. Ed è incredibile l’intreccio di storie che legano i vari personaggi fra loro e con gli avversari, tale che il numero delle vittorie e delle sconfitte cambia costantemente lo stato della narrativa influenzando il risultato finale (del quale esistono numerosissime varianti). E il senso di sacrificio e di responsabilità che viene scaricato sul giocatore, artefice dei destini di tutti i personaggi, è ulteriormente accentuato dalla bellissima canzone finale che scorre nei titoli di coda rivelando il futuro dei protagonisti, cambiando versione e testo a seconda delle scelte fatte nel gioco. Davvero un colpo di genio.

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